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Nemo propheta in patria: Mikhail Gorbaciov

Lo scorso 30 agosto è morto, all’età di 91 anni, Mikhail Gorbaciov. Ultimo segretario del PCUS ed ultimo presidente dell’URSS, Gorby, come da molti viene ricordato, è stato senz’altro uno dei protagonisti del XX secolo, uno di quegli uomini che hanno fatto la Storia. Divenuto l’11 marzo del 1985 segretario generale del PCUS all’età di 54 anni al culmine di una carriera da funzionario del Partito, il neosegretario decise di promuovere un processo di riforme del sistema sovietico capace di avviare il superamento del socialismo reale sul piano economico, con l’apertura al libero mercato e alla proprietà privata, e sul piano politico, garantendo ai cittadini una maggior tutela delle libertà individuali, compresa la libertà di critica, puntando nel contempo al superamento del monopolio del PCUS sulla vita politica del Paese. Contemporaneamente il nuovo leader sovietico avviava una politica estera caratterizzata dalla distensione nei confronti dell’Occidente e, in generale, dall’uso del dialogo in luogo della forza nei confronti degli altri Stati, alleati e non, e dal maggior rispetto nei confronti della sovranità altrui. Di qui la decisione del ritiro dall’Afghanistan (che l’URSS aveva invaso nel 1979), l’avvio del processo di riduzione degli armamenti nucleari in Europa concordato con gli USA nella persona del Presidente Reagan e l’abbandono, nei rapporti con gli alleati, della dottrina Breznev della sovranità limitata. Era l’inizio della fine della Guerra Fredda, del mondo bipolare ma anche, inaspettatamente, della stessa URSS, destinata a scomparire ufficialmente alla fine del 1991. Una figura, quella di Gorbaciov, amata in Occidente e decisamente criticata in Russia. Molti in Russia, e non solo, considerano Gorbaciov responsabile della dissoluzione dell’URSS e della crisi economica e politica che l’ha accompagnata e seguita in Russia, nello spazio ex sovietico e non solo, di cui l’attuale guerra russo – ucraina sarebbe una delle conseguenze. Fermo restando che dare un giudizio sintetico sull’operato di una figura complessa come quella dell’ultimo leader dell’URSS è alquanto impegnativo, giova fare alcune osservazioni. La nazione aveva iniziato la propria ascesa nel secondo dopoguerra. Un’ascesa che l’aveva portata, con la creazione del Patto di Varsavia, a imporre la propria egemonia sull’Europa orientale, dopo aver recuperato, grazie alla vittoria contro il Terzo Reich, gran parte dei territori persi con la Grande Guerra e la pace di Brest-Litovsk. L’URSS, ora una delle due superpotenze (insieme agli USA) destinate a competere per l’egemonia mondiale per tutta la durata di quella che è stata definita Guerra Fredda, si dimostra una nazione sviluppata sul piano industriale e all’avanguardia in quello tecnologico. È il sovietico Sputnik 1, infatti, il primo satellite artificiale (1957) ed è il sovietico Yuri Gagarin il primo uomo nello spazio (1961). La capacità espansiva del sistema sovietico dura fino agli anni ’70 del XX secolo inoltrati. Ma da allora ha inizio una parabola discendente irreversibile. Un modello di sviluppo che, per lo meno fino ai primi anni ’70 riusciva ad essere considerato, nonostante alcuni evidenti limiti, alternativo alla liberaldemocrazia e al  capitalismo di matrice occidentale, sta palesemente perdendo la competizione con questi. La produttività e il progresso tecnologico segnano il passo. L’economia si sta avvitando in una situazione di crisi dovuta anche alle enormi spese militari che, pur garantendo all’URSS la possibilità di giocare alla pari con gli USA la partita per l’egemonia mondiale mettendo in campo una formidabile concentrazione di armi e di armati, sono destinate a rivelarsi eccessive per un’economia decisamente meno sviluppata di quella americana. Lo stesso apparato militare-industriale, nonostante le risorse a disposizione, fatica ormai, soprattutto negli anni ’80, a reggere il confronto con la controparte, che è costretto sempre più spesso ad inseguire. Dal punto di vista politico, la struttura autoritaria dello stato sovietico appare ormai sempre di più come un sistema rigido e conservatore, fortemente autoreferenziale, spesso prigioniero di interessi consolidati come quelli della numerosa nomenklatura. Un sistema onnipresente nella vita dei cittadini, i cui spazi di libertà sono fortemente limitati. L’Unione Sovietica del 1985, dunque, è, nonostante l’aspetto monolitico che mostra all’esterno, un Paese in crisi, dal punto di vista economico e non solo. Una volta al Cremlino, Gorbaciov avvia una vasta opera riformatrice. Obiettivo del nuovo leader del PCUS, destinato a divenire anche presidente dell’URSS nel 1988, è quello di riformare il sistema per salvarlo ma le cose sono destinate ad andare diversamente. L’economia si avvia dalla stagnazione al collasso. Sul piano politico, la costruzione sovietica scricchiola sempre di più a causa della situazione economica, delle inefficienze di sistema e del risveglio dei nazionalismi. Nascosti come il fuoco sotto la cenere, i nazionalismi ora riemergono e, anche grazie al diritto di critica e alle elezioni multipartitiche che vedono la vittoria dei movimenti nazionalisti e indipendentisti, scuotono sempre di più i diversi stati dell’Unione. Nel frattempo, l’Impero Esterno, ovvero l’insieme degli Stati a guida comunista dell’Europa orientale legati all’URSS dal Patto Di Varsavia, si sgretola (anche a causa della fine del supporto sovietico ai regimi comunisti locali) in tempi rapidi: emblematiche a riguardo le immagini della caduta del Muro di Berlino (novembre 1989). Con la fine degli anni ’80 possiamo dire che la situazione sfugge di mano completamente a Gorbaciov: ai moti centrifughi provenienti dai diversi Stati e popoli dell’Unione si aggiunge la volontà indipendentista della stessa Repubblica Russa, fino ad allora fulcro dell’URSS. Gli Stati che ne fanno parte, Russia inclusa, decidono di chiudere con l’Unione Sovietica. Nel 1991 arriva la fine: è dell’estate l’ultimo tentativo di riforma politica di Gorby, che tenta di trasformare l’URSS in una federazione di Stati indipendenti con un comune presidente. Negli stessi giorni, e anche in risposta a ciò, esponenti della nomenklatura sovietica tentano un colpo di stato che fallisce nell’arco di qualche giorno. Gorbaciov resta a capo dell’URSS, ma questa è ormai ridotta ad una pura e semplice finzione giuridica (nel frattempo il PCUS, dopo aver perso il monopolio della rappresentanza politica, viene messo fuorilegge), destinata a durare ancora per poco. Nel dicembre l’accordo sottoscritto dai presidenti di Russia, Bielorussia ed Ucraina dichiara estinta l’URSS, da cui nel frattempo si erano dichiarati indipendenti diversi altri stati. Seguono le dimissioni di Gorbaciov da un ruolo, quello di presidente dell’URSS, adesso abolito mentre la bandiera rossa che sventolava sul Cremlino viene ammainata e sostituita da quella russa. Gorby è stato un personaggio amato e odiato. Apprezzato in Occidente e nei consessi internazionali, abbastanza criticato in patria. Indubbiamente lo statista sovietico – non a caso insignito, nel 1990, del Premio Nobel per la Pace – ha avuto il merito di aver contribuito, con un’azione decisiva, a decretare la fine della Guerra Fredda e dell’equilibrio del terrore che la accompagnava. Se la Cortina di Ferro, che ha separato per decenni l’Europa in due blocchi contrapposti, ha smesso di esistere, e se le due Germanie, dopo la caduta del muro di Berlino, hanno potuto avviare il processo che ha portato in tempi brevi alla loro riunificazione, buona parte del merito va all’ultimo leader sovietico, come non hanno mancato di sottolineare numerosi capi di stato e di governo in occasione della sua morte. Significative le parole del cancelliere tedesco Scholtz, a cui hanno fatto eco molti importanti esponenti del mondo politico tedesco, che ha riconosciuto l’importanza dell’azione politica di Gorbaciov nel favorire la scomparsa della Cortina di Ferro e la riunificazione tedesca. Come si è già detto, Gorbaciov è stato molto criticato in patria. In molti lo considerano responsabile della fine dell’URSS (definita dall’attuale leader russo Vladimir Putin “La più grande catastrofe geopolitica del XX secolo”) e della crisi politica ed economica che la ha accompagnata. Può darsi che lo statista, con la sua azione riformatrice, abbia scoperchiato una sorta di vaso di Pandora, scatenando forze palesemente sfuggite al suo controllo e finendo per accelerare un processo di disgregazione che egli invece desiderava impedire. Forse l’azione riformatrice, arrivata anni dopo la fine della cosiddetta stagnazione brezneviana, è iniziata semplicemente troppo tardi. O forse il sistema sovietico, così come era strutturato, era semplicemente irriformabile. Certamente l’opera di Gorbaciov ha fatto sì che il crollo del blocco comunista e dell’URSS avvenisse in maniera relativamente pacifica e non accompagnandosi ad una guerra che, viste le quantità di armi ed armati in campo, avrebbe potuto essere davvero devastante.

Marco Sfarra

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