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Referendum sulle trivelle: i dati di Legambiente

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Riceviamo e pubblichiamo:

 

IL QUESITO REFERENDARIO RIGUARDA TUTTI I TITOLI ABILITATIVI ALL’ESTRAZIONE E/O ALLA RICERCA DI IDROCARBURI GIÀ RILASCIATI ENTRO LE 12 MIGLIA MARINE, E INTERVIENE SULLA LORO DATA DI SCADENZA.
Ovvero, mentre la legge in materia prevedeva che le concessioni di coltivazione (ovvero di estrazione di idrocarburi) avessero una durata trentennale (prorogabile attraverso apposita richiesta per periodi di ulteriori 5 o 10 anni) e i permessi di ricerca una durata di 6 anni (con massimo due proroghe consentite di 3 anni ciascuna), con una modifica effettuata alla Legge di Stabilità 2016 tali titoli non hanno più scadenza. Il testo attuale della norma infatti prevede infatti che possano rimanere vigenti “fino a vita utile del giacimento”.
È lo stesso Ufficio centrale per i referendum della Corte di Cassazione, parere confermato anche dalla Corte Costituzionale, a riportare che la norma voluta dal Governo ha introdotto una modificazione della durata dei titoli abilitativi già rilasciati, commisurandola al periodo «di vita utile del giacimento», prevedendo, quindi, una «sostanziale» proroga degli stessi ove «la vita utile del giacimento» superi la durata stabilita nel titolo. Infine è importante ricordare che mettere una scadenza alle concessioni date a società private, che svolgono la loro attività sfruttando beni appartenenti allo stato, non è una fissazione delle associazioni ambientaliste o dei comitati, ma è una regola comunitaria. Non si capisce perché in questo caso, le compagnie petrolifere debbano godere di una normativa davvero speciale, che non vale per nessun altra concessione, togliendo ogni scadenza temporale e lasciando la possibilità di appropriarsi di una risorsa pubblica a tempo indeterminato. Al di là del merito, non si comprende perché i debbano godere di un privilegio che non è dato, giustamente, a nessun altro, e che si aggiunge a tanti altri, agevolazioni fiscali, sussidi indiretti o royalties molto vantaggiose, che Legambiente ha quantificato in circa 2,1miliardi di sussidi diretti o indiretti all’anno all’intero comparto.
Condizione che riguarda solo i titoli a mare entro le dodici miglia marine dalla costa o dalle aree protette: tutti gli altri titoli rilasciati (quelli oltre le 12 miglia marine), con un emendamento del Governo alla Legge di Stabilità 2016 che modifica il comma 5 dell’articolo 38 del Decreto Sblocca Italia, possono avere durate di 30 anni nel caso di concessione di coltivazione e di 6 anni nel caso di permessi di ricerca.

I TITOLI OGGETTO DEL REFERENDUM
Il Governo, con l’emendamento alla legge di Stabilità 2016, che modifica il Dlgs 152/2006, ha vietato tutte le nuove attività entro le 12 miglia marine, ma ha mantenuto i titoli già rilasciati, che comprendono sia le concessioni di coltivazione (estrazione), sia i permessi di ricerca oggi vigenti.
A oggi nel nostro mare entro le 12 miglia sono presenti 35 concessioni di coltivazione di idrocarburi, di cui 3 inattive, una è in sospeso fino alla fine del 2016 (è quella di Ombrina Mare, al largo delle coste abruzzesi), 5 non produttive nel 2015. Le restanti 26 concessioni che sono produttive, per un totale di 79 piattaforme e 463 pozzi, sono distribuite tra mar Adriatico, mar Ionio e canale di Sicilia. Di queste, 9 concessioni (per 38 piattaforme) sono scadute o in scadenza ma con proroga già richiesta; le altre 17 concessioni (per 41 piattaforme) scadranno tra il 2017 e il 2027 e in caso di vittoria del Sì arriveranno comunque a naturale scadenza.
Le piattaforme soggette a referendum oggi producono il 27% del totale del gas e il 9% di greggio estratti in Italia (il petrolio viene estratto nell’ambito di 4 concessioni dislocate tra Adriatico centrale – di fronte a Marche e Abruzzo – e nel Canale di Sicilia). Dal momento che l’attuale normativa fa salvi tutti i titoli abilitativi già rilasciati e ancora vigenti, rientrano in questa categoria anche i permessi di ricerca presenti nell’area entro le 12 miglia marine. Tali permessi sono 9 per un’estensione di 2.488 kmq: 4 di questi si trovano nell’alto Adriatico (3 sono attualmente sospesi in attesa di apposito decreto VIA che certifichi la non sussistenza di rischi apprezzabili di subsidenza; 1 risulta attivo con scadenza nel 2018); altri 2 permessi di ricerca ricadono nell’Adriatico centrale di fronte alle coste abruzzesi e sono momentaneamente sospesi; un permesso di ricerca si trova nella porzione meridionale della Sicilia, tra Pachino e Pozzallo, ed è attualmente sospeso; un altro permesso ricade di fronte la costa di Sibari e la data di scadenza è nel 2020; l’ultimo permesso ricade a largo dell’isola di Pantelleria ed è sospeso per problemi tecnici.

UN CONTRIBUTO INCONSISTENTE ALLA BOLLETTA ENERGETICA
Negli ultimi anni la produzione dalle piattaforme di olio e gas è andata sempre più diminuendo. In particolare, stando alle elaborazioni sulla produzione fornite dal MISE e rielaborate da Aspo Italia, la produzione del gas dalle piattaforme in questione ha raggiunto il picco a metà degli anni novanta, con dei quantitativi di dieci volte superiori rispetto agli attuali, e negli ultimi dieci anni è andata sempre più diminuendo. Anche il petrolio è in fase discendente come produzione, con il picco raggiunto nel 1988 e oggi si è stabilizzata a livelli di 4 volte inferiori a tale valore.
La produzione delle piattaforme attive entro le 12 miglia nel 2015 è stata di 542.881 tonnellate di petrolio e 1,84 miliardi di Smc (Standar metri cubi) di gas; i consumi di petrolio in Italia nel 2014 sono stati di circa 57,3 milioni di tep (ovvero milioni di tonnellate) e quindi l’incidenza della produzione delle piattaforme a mare entro le 12 miglia è stata di meno dell’1% rispetto al fabbisogno nazionale (0,95%). Per il gas i consumi nel 2014 sono stati di 50,7 milioni di tep corrispondenti a 62 miliardi di Smc; l’incidenza della produzione di gas dalle piattaforme entro le 12 miglia è stata del 3% del fabbisogno nazionale.
Importante rilevare come i consumi di gas negli ultimi dieci anni sono diminuiti del 21,6%, passando dai 86.171 milioni di metri cubi del 2005 ai 67.523 del 2015. Marginale risulta la produzione nazionale pari al 10% del consumo consumi interni lordi e che negli ultimi 10 anni ha subito una riduzione di circa il 43%. Anche il petrolio ha subito una riduzione del 33% dei consumi negli ultimi 10 anni (2005 – 2015) passando da 85,2 a 57,3 Mtep ed è previsto un ulteriore abbattimento dei consumi nei prossimi anni. Infine è utile rimarcare la totale insensatezza di puntare sull’estrazione di gas e petrolio per garantire la nostra indipendenza energetica. I dati forniti dall’Unmig, l’ufficio minerario per gli idrocarburi e le georisorse del MISE, e da Assomineraria, stimano infatti riserve certe sotto i fondali italiani che sarebbero sufficienti (nel caso dovessimo far leva solo su di esse) a soddisfare il fabbisogno di petrolio per sole 7 settimane e quello di gas per appena 6 mesi.

RISCHI E IMPATTI SULL’AMBIENTE MARINO E COSTIERO Votare “Sì” al referendum del 17 aprile vuol dire anche tutelare il prezioso ecosistema marino e costiero, su cui le attività di ricerca e di estrazione di idrocarburi possono avere un impatto rilevante. Le attività di routine delle piattaforme possono rilasciare sostanze chimiche inquinanti e pericolose nell’ecosistema marino, come olii e greggio (nel caso di estrazione di petrolio) e metalli pesanti o altre sostanze contaminanti (anche nel caso di estrazione di gas), con gravi conseguenze sull’ambiente circostante, come dimostrano i dati del ministero dell’Ambiente relativi ai controlli eseguiti nei pressi delle piattaforme in attività oggi nel mare italiano rielaborati di recente da Greenpeace. Anche la ricerca del gas e del petrolio, che utilizza la tecnica dell’airgun (esplosioni di aria compressa), incide in particolar modo sulla fauna marina e su attività produttive come la pesca che potrebbe registrare una diminuzione del pescato fino al 50%.
Senza considerare che i mari italiani sono mari “chiusi” e un eventuale incidente – nei pozzi petroliferi offshore e/o durante il trasporto di petrolio – sarebbe fonte di danni incalcolabili con effetti immediati e a lungo termine su ambiente, qualità della vita e con gravi ripercussioni gravissime sull’economia turistica e della pesca. Un eventuale sversamento potrebbe causare alle nostre coste danni incalcolabili. Secondo il Piano di pronto intervento nazionale per la difesa da inquinamenti di idrocarburi o di altre sostanze nocive causati da incidenti marini di Ispra, le varie tecniche di rimozione delle sostanze sversate consentirebbero
di recuperare al massimo non più del 30% dell’idrocarburo sversato. Le gravissime conseguenze ambientali dell’incidente della Deepwater Horizon nel Golfo del Messico ne sono la dimostrazione.
Infine da non sottovalutare, nella zona dell’Alto Adriatico è il fenomeno della subsidenza, cioè l’abbassamento del suolo. L’estrazione di gas sotto costa, anche se non è l’unica causa di tale fenomeno, resta il principale fenomeno antropico che causa la perdita di volume del sedimento nel sottosuolo generando un abbassamento della superfice topografica. I dati dei monitoraggi Arpa evidenziano come le conseguenze più rilevanti si registrano in particolare sulla fascia costiera dell’Emilia Romagna che negli ultimi 55 anni si è abbassata di 70 cm a Rimini e di oltre un metro da Cesenatico al delta del Po. Alcuni studi riportano come l’abbassamento di un centimetro all’anno comporta, nello stesso periodo, una perdita di un milione di metri cubi di sabbia sui 100 km di costa. Assegnando alla sabbia utilizzata per il rinascimento delle spiagge il costo di 13€/m³, ogni anno andrebbero spesi 13 milioni di euro per rimpiazzare la sabbia persa. Nella fascia costiera, tra il 1950 e il 2005 tra Rimini e il delta del Po, per via dell’abbassamento di circa 1 metro, sono andati perduti circa 100.000.000 m³ di sabbia, con un danno stimato di 1,3 miliardi di euro, contro i 7,5 milioni di euro all’anno ottenuti come Royalties dalle compagnie petrolifere. Il costo per la collettività è quindi maggiore del guadagno. La subsidenza aumenta inoltre l’impatto delle mareggiate e delle piene fluviali, favorendo l’erosione costiera, con perdita di spiaggia ed effetto negativo sulle attività turistiche rivierasche.

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